av Č, Anton Pavlovič & echov
116,-
«È arrivato Volódâ!» gridò qualcuno fuori. «È arrivato il padroncino Volódâ!» strillò Natàl¿â, correndo in sala da pranzo. «Ah, Dio mio!». Tutta la famiglia Korolëv, che aspettava l¿arrivo del suo Volódâ da un momento all¿altro, si precipitò alle finestre. All¿ingresso c¿era un grande rozval¿ni1 e un vapore denso saliva dalla trojka di cavalli bianchi. La slitta era vuota, perché Volódâ era già nell¿ingresso e si stava slacciando il cappuccio con le dita arrossate, congelate. Il cappotto dell¿uniforme del ginnasio, il berretto, le galosce e i capelli sulle tempie erano coperti di brina ed emanava dalla testa ai piedi un odore di gelo così buono che, guardandolo, veniva voglia di rabbrividire e dire: «Brrr!». La madre e la zia si precipitarono ad abbracciarlo e baciarlo, Natàl¿â gli si accasciò ai piedi e cominciò a sfilargli i vàlenki2, le sorelle si misero a strillare, le porte cigolavano, sbattevano, e il padre di Volódâ, col solo gilè addosso e le forbici in mano, si precipitò nell¿anticamera e gridò spaventato: «È da ieri che ti stiamo aspettando! Hai fatto buon viaggio? Tutto bene? Signore, mio Dio, lasciate che saluti suo padre! Cos¿è, non sono suo padre?»